martedì 23 ottobre 2012

mirror



"...Vederla venirmi vicino fu quasi morire, trovare per caso il destino ma non sapere che dire. E, invece, fu lei a parlare..."


le 6.15 del mattino, su una carrozza disabitata della metropolitana che da Piazza Bologna mi porta, ancora con il cielo scuro, a fare uno dei folli lavori di questi tempo difficili.
Una canzone che vive stabilmente nella mia esistenza ormai da anni (L'autostrada - Daniele Silvestri) e che scatena emozioni diverse in diversi tempi.


Mi sono vista allo specchio, a parlare con la me stessa di qualche anno fa, quella che non aveva ancora tra i suoi grandi amori le corde.
E ho pensato che lei sarebbe affascinata da me, adesso, ma non mi stimerebbe.
Che le corde hanno preso il sopravvento, che ormai sono per tutti: quella che lega le persone. Come se non ci fosse altro da dire o da fare.
Che nessuno più chiede un abbraccio di sola pelle, una carezza che non sia sui segni, un momento di calore che non sia scaldato dalla cera liquida incandescente.


Ed è strano guardarsi allo specchio e sentirsi meno interessante. In un momento in cui invece il resto del mondo ti considera affascinante.


Le corde sono un prolungamento delle mie mani. Dita flessibili sulla pelle liscia, mille pezzi d'anima che sfiorano il corpo altrui.
Eppure quei prolunamenti di yuta si sono arrampicati sulle mie braccia, verso le spalle, il seno, giù ai glutei e via fino ai piedi.
Avvolta nelle mie stesse corde, intrappolata nell'ennesimo guscio della mia vita ho perso ogni capacità di toccare a mani nude.



Non strapperò via le corde come ogni altra cosa che ha limitato il mio amore.
Le farò scivolare, permetterò loro di graffiare la mia pelle, le strofinerò contro la pancia e la schiena, le passerò sui capezzoli e i genitali.
In quel momento di seduzione così amato da chi si offre a me e alle mie corde rosse.
Quell'istante in cui si è solo pelle. tutta pelle.


E mi rimetterò davanti allo specchio. Permettendo alla vecchia me di guardarmi e chiedermi:

"... e a te cosa piace?... Aspettiamola insieme l'estate... "

lunedì 8 ottobre 2012

PASSI. Meiji Jungu. Tokyo.

Seduta su una panca di legno con la schiena poggiata a una grossa trave nel portico di Meiji Jungu pensavo che Tokyo non ha emozioni per me.
Di mattina è anonima e senza personalità, piene di gente senza volto che la percorre di fretta.
La sera ha un proprio modo di essere, che non è però il mio. Nel mio primo giorno tutto giapponese, con il sole che scaldava le spalle sono finita in quel tempio, alla ricerca degli iris dell'imperatrice Meiji che ricordavo fiorissero proprio in quei tempi.

Nel tempio un matrimonio, lei con il suo kimono bianco dalle lunghe maniche sembra quasi bella, nonostante non sia stata graziata dalla natura di un viso splendente; lui nel suo completo occidentale è così giapponese, smilzo, ossuto, poco sensuale. Una scolaresca si ferma per cedere loro il passo. Una classe dell'asilo, dei tempi ancora senza divisa. Sfilano davanti a me, in una fila imperfetta e sono tutti così carini, sorridenti, di quel sorriso che svanisce, da queste parti, intorno ai sei anni, quando la scuola diventa la piccola prigione di un'infanzia creativa. Tra loro, un'occidentale. Una piccola ispanica dalla pelle olivastra in una classe dagli occhi a mandorla.

E poi è un attimo. Passeggio nel parco stracolmo di turisti indiani, in un insolito gruppo tutto maschile, che mi ricorda che sono donna, bianca, con i capelli rossi, cicciottina e quindi gnocca, tra l'altro, mentre sorrido volto l'angolo ed è così bello che ho le lacrime agli occhi. I corvi fanno il loro dovere e coprono ogni rumore della città, i grilli invece si sentono poco, e mentre cammino mi chiedo se è colpa della storia di Fukushima, e mi faccio venire le paturnie, per avere bevuto l'acqua della fontanella, pochi minuti prima. Ma qui l'erba è alta e gli alberi rigogliosi, e il disastro sembra così lontano.

E quell'albero è il simbolo del mio Giappone. Foglie verdi bellissime, che trovano spazio ovunque. Anche dove non dovrebbero stare.

martedì 2 ottobre 2012

PASSI. In volo Da Mosca a Tokyo

Era il tre giugno, quasi il periodo delle piogge. Sul volo da Mosca a Tokyo ero una dei pochi occidentali presenti, l'unica a non parlare russo nonostante il colore della mia pelle. E certo che un viaggio che inizia con un biscotto della fortuna senza biglietto dentro è un viaggio strano. E' come se dovesse portar sfiga. Oppure come se il destino fosse tutto mio, completamente nelle mie mani, esclusivamente in mio potere. Con la guida della mia vita tra le dita sono atterrata a Tokyo, per la seconda volta negli ultimi tre anni, lasciando a casa qualcosa di nuovo, portando con me uno zaino pieno di prestiti e cura. Poco più di due settimane, da sola, in viaggio per il Giappone, tra bus notturni non ancora prenotati e divani sui quali dormire. Arrivare a Tokyo, piangere sul Narita Express, tagliare la città in metro, camminare senza cartina, avvolta nelle voci che cantilenano il tanto odiato irasshaimaseeeeee, erano emozioni già conosciute. Come quel senso di oppressione inaccettabile che Tokyo mi ha sempre scatenato. Tre anni fa sono scappata, per tornare, a casa, a una vita che ora non esiste più. E ora scopro che tre anni fa sono tornata in parte per la vita che avevo qui, ma soprattutto perchè quella città è una casa non accogliente, un letto scomodo, un paio di calzini bucati sull'alluce, che quando li togli hai il dito blu per la mancanza di circolazione. Il mio racconto di viaggio parte da qui. Spero di riuscire a portarvi con me. Anche adesso, anche se è passato del tempo.